Alessandro Manzoni: per una nazione unita una lingua unica

Alessandro Manzoni: per una nazione unita una lingua unica

Alessandro Manzoni venne nominato senatore del futuro Regno d’Italia nel febbraio del 1860.

E infatti senatore divenne, non senza aver cercato prima di sottrarsi. Scrive all’amico Emilio Broglio, influente politico milanese:

“Ricusare [‘rifiutare’] un onore che è anche un nobile dovere, a cui mi chiamasse quel Re, quel Governo, in cui sono concentrate tutte le mie affezioni e la mia riconoscenza come italiano, come suddito e come privato cittadino, sarebbe davvero étonner le monde avec l’excès de mon ingratitude [‘sbalordire il mondo con il massimo della mia ingratitudine’]. D’altra parte, accettare è un’assoluta impossibilità. Lascio stare che a 75 anni viaggiare, mutare domicilio e abitudini, separarsi da una moglie inferma e da una famiglia che non potrebbe seguirmi, non è cosa di poco momento. Ma v’ha di peggio. Di parlare, in Senato, non è nemmeno il caso di pensarci, giacché sono balbuziente, e tanto più quando son messo al punto; sicché farei, certamente, ridere la gente alle mie spalle anche soltanto a dover rispondere, lì per lì, alla formula del giuramento, giu… giu… giuro! Andare in Senato, anche per tacere, è già una grossa difficoltà per un uomo, che, da quarant’anni, in causa di attacchi nervosi, non osa mai uscir solo di casa sua. Perfino il rimanere in una sala, dove sieno radunate quaranta o cinquanta persone, parrà una caricatura, ma non c’è verso, la è un’impresa superiore alle mie forze; gli è tanto vero, che spesso mi accade, andando la domenica a messa, quando ci sia un po’ di gente in chiesa, di non potermi superare, e doverne uscire senz’altro. Resterebbe il terzo partito di non ricusare, e poi non andarvi; ma chi non vede che cotesta sarebbe una posizione falsa e poco degna, e verso il Re e verso il paese, e verso il Governo e verso me stesso?“.

Parole che senz’altro ci aiutano a vedere il gran lombardo finalmente anche come uomo, con tutte le sue debolezze, le sue perplessità, le sue paure; non fu soltanto il grave scrittore destinato ad incombere con la sua opera su centinaia e centinaia di ragazzi alle prese con I Promessi Sposi.

Alessandro Manzoni si occupò di narrativa e poesia, certo; ma scrisse anche di lingua, di quella che secondo lui avrebbe dovuto diventare la lingua d’Italia: il fiorentino vivo, parlato dalle persone colte. Il problema della lingua ossessionò il Manzoni per tutta la vita; già prima di dedicarsi alla stesura del Fermo e Lucia (prima redazione de I Promessi Sposi), s’interrogava sull’effettiva esistenza di una lingua parlata comune a tutti gli italiani. All’amico francese Claude Fauriel scrive, nel 1821 (la lettera è in lingua francese, ne riporto qui la traduzione):

“Quando un francese cerca di esprimere al meglio le sue idee, vedete che abbondanza e che varietà di modi egli trova in quella lingua che ha sempre parlato, in quella lingua formatasi da tanto tempo e che si rinnova ogni giorno. [...]. Ha inoltre una regola per scegliere le sue espressioni, e questa regola la trova nei suoi ricordi, in quelle sue abitudini che gli danno la quasi certezza della conformità del suo stile allo spirito generale della sua lingua; egli non deve consultare dizionari per sapere se una parola urterà o scorrerà liscia; egli si chiede soltanto se è francese o no, ed è quasi certo della sua risposta. [...]. Immaginatevi al suo posto un italiano che scrive, se non è toscano, in una lingua che non ha quasi mai parlato e che, se pure è nato nel paese privilegiato, scrive in una lingua che è parlata da un piccolo numero d’abitanti d’Italia; [...]. A questo povero scrittore mancherà completamente, per così dire, il senso di comunione con il suo lettore, la sicurezza di maneggiare uno strumento ugualmente conosciuto da entrambi. Che se poi si domanda se la frase che ha scritto è italiana, come potrà darsi una risposta sicura in una questione così poco precisa? Che significa infatti italiano in questo senso?”.

Il confronto con la realtà linguistica francese ritornerà in uno degli ultimi scritti del Manzoni, la Relazione Dell’unità della lingua.

Alessandro ManzoniNel gennaio del 1868 Emilio Broglio (divenuto l’anno precedente ministro della Pubblica Istruzione) nominò una commissione con l’incarico di fissare le regole, le forme, la pronuncia del corretto italiano e proporre i metodi per una sua diffusione “trasversale” all’interno della popolazione. Tutti i ceti sociali dovevano insomma esser messi in condizione di accedere alla norma linguistica e farla propria; unità della nazione significava anche servirsi di un idioma comune. La commissione istituita dal Broglio comprendeva due sezioni: il Manzoni, Presidente generale della commissione, era a capo di quella milanese; l’altra, quella fiorentina, aveva come principale referente Raffaello Lambruschini, Vicepresidente della commissione. Nel marzo del 1868 il Manzoni presentava la sua proposta, dal titolo Dell’unità della lingua: in essa ritroviamo concentrate tutte le argomentazioni che lo scrittore utilizzò nel corso degli anni per promuovere l’adozione della parlata fiorentina come lingua d’Italia.

  • In una nazione in cui vengono usati per la comunicazione quotidiana tanti idiomi profondamente diversi l’uno dall’altro (i dialetti), come faranno gli italiani delle varie regioni a capirsi? Occorre quindi scegliere uno di questi idiomi (lingue complete, in grado di provvedere il parlante di tutto il necessario per affrontare qualsiasi tipo di argomento) e farlo diventare lingua comune.
  • Eleggere un singolo e preciso idioma permetterebbe di ottenere quell’unità linguistica che in Francia si è realizzata in modo naturale nel corso dei secoli a partire dal Medioevo grazie a forti poteri centrali localizzati nell’area dell’attuale capitale: più gli organi amministrativi, gli uffici, i mercati sono concentrati, riuniti in un’unica zona, più aumentano i contatti tra “residenti” ed esterni, i quali molto facilmente assimileranno il modo di parlare di coloro che abitano in un’area ricca e in grado più di altre di esportare e diffondere abitudini e stili di vita. Tali circostanze hanno però solo favorito il processo di convergenza linguistica in Francia, reso possibile in primo luogo dalla decisione del re franco Ugo Capeto di adottare come idioma comune la lingua parlata a Parigi, nell’Ile de France (da qui lingua francese).
  • In Italia c’è bisogno quindi di un’azione analoga: scegliere un particolare dialetto e indicarlo come punto di riferimento per la lingua nazionale. Considerando la gran quantità e il prestigio delle opere letterarie (si pensi a Dante e Boccaccio) che nel corso dei secoli hanno contribuito a render nota nel resto d’Italia la lingua parlata a Firenze, è proprio questa lingua la miglior candidata; e qual è il modo più efficace per diffondere una lingua? Il vocabolario. Si dovrà perciò mirare alla creazione di un Vocabolario del “linguaggio fiorentino vivente”.

Nota: Il Manzoni spesso adopera indifferentemente fiorentino e toscano. Chiarisce però che

“la denominazione di lingua toscana non corrisponde esattamente alla cosa che si vuole e si deve volere, cioè a una lingua una; mentre il parlare toscano è composto d’idiomi pochissimo dissimili bensì tra di loro, ma dissimili, e quindi non formanti una unità. Ma l’improprietà del vocabolo non potrà cagionare equivoci [...]; [...] le denominazioni di latino, di francese, di castigliano, quantunque derivate, non da delle città, ma da dei territori, non hanno impedito che, per latino s’intendesse il linguaggio di Roma, come, per francese e per castigliano, s’intendono quelli di Parigi e Madrid.”

Un esempio di dissomiglianza tra dialetti toscani ce lo offre nel settore del lessico lo stesso Manzoni nella Lettera intorno al vocabolario scritta nell’aprile del 1868. Infatti,

“Quello che a Firenze si dice Grappolo d’uva, si dice a Pistoia Ciocca d’uva, a Siena Zocca d’uva, a Pisa e in altre città Pigna d’uva.”

  • Svariate, afferma lo scrittore, saranno le obiezioni alla proposta del fiorentino come lingua comune. La prima: il vocabolario deve basarsi sulla lingua della nazione, non sull’idioma di una città. Ma qual è la lingua della nazione? Un veneziano o un napoletano difficilmente trovano per un preciso termine del loro idioma il corrispettivo esatto in italiano, dovendo così ricorrere a perifrasi, sinonimi e parole straniere.
  • La seconda presunta obiezione porta il Manzoni a introdurre il concetto di dialetto: l’Italia deve avere una lingua, e il linguaggio di Firenze è invece un dialetto. Questo assunto è sbagliato alla radice, non ha senso. Si può parlare di dialetto solo se esiste una lingua. In altre parole, l’unica differenza tra dialetto e lingua consiste nella maggior diffusione e nel riconoscimento “politico” che la seconda può vantare sul primo. Fino a che un idioma non prende il sopravvento sugli altri non si può parlare né di lingua né di dialetti; in Italia esistono solo idiomi “in pieno vigore”, di pari grado, potremmo dire sullo stesso piano giuridico.
  • Qualcuno poi sostiene che la lingua italiana si trova già pronta negli scritti, nelle opere letterarie. Ma intanto, quali scritti? Quelli di tutta Italia, o di una parte? Quelli di ogni epoca, o piuttosto di alcuni periodi scelti, e in questo caso in base a quali criteri? E poi: una lingua non è solo lingua scritta, è anche e soprattutto lingua parlata, comunicazione orale.
  • A questo punto però ci sarà chi lamenterà che un vocabolario dell’uso vivo, parlato, di una lingua non potrà fornire indicazioni sulla lingua degli scrittori di ogni epoca, impedendone così la comprensione. Nessun problema: vanno semplicemente distinti gli obiettivi e le funzioni. L’essenziale è che gli abitanti di una nazione possano innanzitutto capirsi tra sé ricorrendo a medesime norme e abitudini linguistiche, grazie alla consultazione di un vocabolario dell’”uso attuale”. Poi si penserà anche agli specialisti del settore (quindi una ristretta parte della popolazione), i letterati, che potranno usufruire di un apposito vocabolario “storico” per interpretare correttamente i testi della tradizione.
  • Uno strumento efficacissimo per diffondere la lingua del vocabolario, la lingua comune, sarà rappresentato da vocabolari bilingui ‘dialetto-italiano’ (veneziano-italiano, napoletano-italiano, ecc.). Tali vocabolari permetteranno infatti agli utenti di trovare immediatamente per ogni voce dialettale il termine italiano corrispondente.

Molto interessanti sono anche le ‘strategie’ che secondo il Manzoni dovrebbero esser messe in atto per raggiunger l’obiettivo. Non si può dire che lo scrittore fosse a corto di idee:

1) Senza aspettare la pubblicazione del vocabolario, la prima cosa da fare sarebbe selezionare accuratamente insegnanti toscani o comunque cresciuti in Toscana, e spedirli nelle varie province a diffondere la ‘buona favella’; disporre inoltre sussidi per i Comuni che assumessero insegnanti toscani in gran quantità. Organizzare conferenze in cui i maestri toscani istruiscano quelli delle altre regioni sul corretto uso linguistico, segnalando eventuali provincialismi o arcaismi (parole non più utilizzate). Dovrebbe poi esser attuata una sorta di ‘censura’ contro tutto ciò che non è toscano, ossia un controllo capillare di qualsiasi testo si decida di esporre e sottoporre all’attenzione della gente: dai volantini, ai giornali, agli abbecedarii, ai libri del catechismo. Infine, istituire un premio particolare per gli studenti meritevoli: un’intera annata scolastica a Firenze, per praticare la buona lingua in una delle migliori scuole primarie.

2) Questi i mezzi di diffusione del nuovo vocabolario:

“- Provvedere che tutte le scuole governative [...] abbiano per ciascuna classe, degli esemplari del nuovo vocabolario, in quantità proporzionata al numero degli alunni:

- Curare che del vocabolario si faccia anche un’edizione la più economica possibile, per renderne facile l’acquisto a ciascuno scolare:

- Avere, per le scuole elementari ed anche per le scuole tecniche, de’ piccoli vocabolarii domestici d’arti e mestieri, compilati sul nuovo vocabolario della lingua, e alcuni, anche, figurati:

- Dare in premio, nelle diverse scuole, insieme ad un’opera di buona letteratura, una copia del vocabolario [...]:

- Cercare che, anche in tutte le scuole femminili, i libri più elementari sieno raccomandati o prescritti in modo che si diffonda sempre più, nelle città e nelle campagne, la cognizione della buona lingua viva [...].”

Come venne accolta la proposta del Manzoni? Il Vicepresidente Lambruschini (a capo della sezione fiorentina della commissione) non la criticò apertamente, ma ne mise in discussione i principi di fondo: la vera lingua era quella delle campagne toscane, dei contadini, incontaminata dagli artifici e le formalità della civiltà urbana; il vocabolario voluto dal Manzoni in realtà esisteva già, bastava consultare quello della Crusca o altri e poi ‘pescare’ le voci ancora in uso dal mare magnum di vocaboli obsoleti o letterari (ma chi avrebbe stabilito i criteri per la selezione?). Quel che invece serviva davvero era una specie di ‘lista di proscrizione’ delle parole straniere, “barbare”, che minacciavano di usurpare il dominio e la fama di quelle italiane.

“[...] noi crediamo che gioverebbe un foglio pubblicato a determinati o non determinati intervalli, ma costante, che mettesse a mano a mano in mostra gli sconci vocaboli o frasi che si vengono inventando o pigliando da lingue straniere, e si gettano nel pubblico, il quale ci avvezza l’orecchio, e a poco a poco le fa sue.”

Dopo aver preso coscienza della divergenza di opinioni, il Manzoni si dimise da Presidente della Commissione. Ma il ministro Broglio, che condivideva le idee del grande scrittore e amico, sciolse la commissione e costituì nell’ottobre del 1868 una Giunta con l’incarico di compilare il vocabolario fiorentino: Il Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze (uscito a Firenze in 4 volumi dal 1870 al 1897). Dopo questo successo, il Manzoni riprende animo e redige a partire dal gennaio del 1869 l’Appendice alla Relazione, in cui ribadisce i punti essenziali della sua teoria sulla lingua rispondendo indirettamente alle asserzioni del Lambruschini. Particolarmente interessante la posizione del Manzoni riguardo all’impiego di voci straniere (a quei tempi il principale bersaglio dei puristi era la lingua francese), condannate in toto dal Lambruschini. Cosa dobbiamo intendere, si chiede lo scrittore, per voci straniere? Oltre alle parole di origine francese entrate nell’uso da secoli e quindi ormai “integrate” e conformi alla struttura dell’italiano (come mangiare, lignaggio, gioiello, viaggio, preghiera, ecc.; voci che è quindi inutile cercar di sostituire),

“Del rimanente, [...] è facile il riconoscere, anche a una prima occhiata, quante e quante di queste locuzioni straniere siano venute a prender de’ posti voti, a significar cose, o pensate, o scoperte, o praticate in altri paesi, e non conosciute tra di noi, se non per questo mezzo [cioè il vocabolo straniero; le cose scoperte o pensate in altri paesi quando arrivano in Italia vengon conosciute con il nome a loro attribuito nella nazione in cui sono nate].”

Esempi di questa seconda categoria sono i francesismi introdotti da nuove pratiche amministrative, come bureau (o burò, la ‘scrivania dell’ufficio’, da cui ‘burocrazia’) borderò, timbro (fr. timbre), parole entrate nell’uso durante la dominazione napoleonica; quindi, in rapporto al tempo in cui visse l’autore dei Promessi Sposi, penetrate in epoca più recente.

In che misura vanno accolti allora questi termini stranieri di nuovo conio? La conclusione del nostro Alessandro Manzoni, tratta sempre dall’Appendice, mi sembra molto equilibrata e forse dirimente:

“Regnano in Italia, o piuttosto pugnano [‘lottano’] tra di loro, due opinioni intorno alle locuzioni di Francia, da un secolo circa, e che continuano a venire: una che dice a tutte: Passi; un’altra che dice a tutte: Via. E qui, come in ogni questione relativa a lingua, la soluzione logica e utile non si può trovar che nell’Uso [se col tempo molte persone arrivano ad usare una parola straniera significa che la loro lingua madre non è in grado di fornirne il corrispettivo], vale a dire in ciò che è dimenticato ugualmente dalle due parti.”

 

6 Commenti

  1. Giacomo
    14 giu 2011

    Molto interessante anche se non l’ho letto perché è troppo lungo. Ciao.

  2. francesca
    11 set 2011

    chiaro, interessante e ben documentato. Certo bisogna avere voglia di leggere…

  3. Anonimo
    17 set 2011

    chi non ha voglia li leggere non inizi a leggere… la lettura il sapere la conoscenza…quel dono unico che è il pensiero non è degno di chi non abbia il tempo la pazienza la passione o semplicemente il coraggio di “leggere e pensare”

  4. ilaria
    21 set 2011

    buon compendio, grazie.

  5. anonimo
    6 ott 2011

    molto interessante!da leggere tutto

  6. Nome
    7 ott 2011

    mooooolto utile! Grazie ;)

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