La Monaca di Monza: chi era costei?
La Monaca di Monza: il personaggio dei Promessi Sposi che forse più di tutti gli altri è in grado di ricondurci all’eterna questione del rapporto tra bene e male, della loro sostanziale inscindibilità.
Una monacazione forzata, un amore proibito, la disperazione che porta al delitto: ma chi è stata davvero la Signora?
Dai Promessi Sposi del ’40 (come del resto dalla versione precedente, la Ventisettana) emerge una figura di donna colpevole, degna di biasimo soprattutto per non aver trovato in sé la forza di opporsi al perfido volere del padre (“Ciò che [...] s’impossessava di tutto il suo animo, era il sentimento de’ gran progressi che aveva fatti [...] sulla strada del chiostro, il pensiero che a ritirarsene ora ci vorrebbe molta più forza e risolutezza di quella che sarebbe bastata pochi giorni prima, e che pure non s’era sentita d’avere”), uno dei principi più facoltosi e influenti di Monza. Forse condizionato dai precetti della morale cristiana cattolica, il Manzoni pone l’accento sul peccato di accidia (la “tepidezza in ben far” di dantesca memoria), che sembra determinare nel romanzo ogni vicenda in cui è coinvolta Gertrude. Come non è stata in grado di dir di no al padre, così la donna non riesce a liberarsi dalla soggezione psicologica nei confronti di Egidio: non impedirà l’omicidio della conversa che scopre la loro relazione segreta (il testo non chiarisce chi è l’assassino, ma ci lascia con l’idea che gli autori dell’omicidio siano i due amanti) e soddisferà la richiesta dell’amante ingannando e consegnando ai bravi di Don Rodrigo la povera Lucia.
Molto di più, e un quadro degli eventi diverso e più dettagliato riguardo al rapporto con Egidio e al delitto, possiamo ricavare dalla lettura del Fermo e Lucia, la primissima versione del romanzo ancora caratterizzata da un compiacimento per i toni cupi, “noir” della narrazione: Egidio, figlio anche lui di un potente dedito a frodi e soprusi, viene inizialmente respinto con decisione dalla Signora, e solo a poco a poco riesce ad insinuarsi nei suoi pensieri e nelle sue fantasie; in secondo luogo, nel romanzo si specifica che ad uccidere la conversa che ha minacciato di svelare l’intrigo amoroso è una delle due “monache-damigelle” di Gertrude con la complicità dell’altra suora e di Egidio (il quale poi, una volta scoperto lo scandalo, cercherà di ucciderle entrambe in quanto testimoni scomode). Ma come si comporta in tale frangente la Signora? Chiusa nelle sue stanze “lascia fare”, è vero, ma vive con fortissimi sensi di colpa ciò che sta accadendo, rifiutando qualsiasi minimo gesto di collaborazione; a fatto compiuto, assistiamo inoltre a uno scambio di battute tra la monaca ed Egidio, in cui Gertrude si lascia andare ad uno sfogo dettato dal rimorso per non essersi opposta a una tale atrocità (sfogo che invece viene eliminato nei Promessi Sposi e sostituito dall’indifferenza e la dissimulazione con cui Gertrude accoglie le perplessità delle monache in merito alla scomparsa della conversa). Si ha nettamente la sensazione che, nel Fermo e Lucia, il Manzoni sia più tollerante e comprensivo nei confronti del personaggio della Monaca di Monza; che l’autore invece di capire e basta giustifichi anche, e che attraverso le articolate descrizioni degli eventi desideri presentarci un animo di donna non debole per natura, ma reso tale dall’impossibilità di estrinsecarsi nel quotidiano a causa di imposizioni, violenze, circostanze avverse. Può forse risultare di un qualche interesse il confronto tra l’epilogo della vicenda di Gertrude che leggiamo nei Promessi Sposi e quello che riscontriamo invece nel Fermo e Lucia. Ecco il primo:
“[Lucia] seppe dalla vedova che la sciagurata, caduta in sospetto d’atrocissimi fatti, era stata, per ordine del cardinale, trasportata in un monastero di Milano; che lì, dopo molto infuriare e dibattersi, s’era ravveduta, s’era accusata; e che la sua vita attuale era supplizio volontario tale, che nessuno, a meno di non togliergliela, ne avrebbe potuto trovare un più severo”.
Qui si vuol metter in rilievo la colpevolezza della donna e allo stesso tempo, per contrasto, il prestigio morale che essa acquista grazie alla volontà di espiazione e alle sofferenze che si autoinfligge. E ora, la visione un po’ più rasserenante, più “umana”, più solidale nei confronti di Gertrude (la Gertrude peccatrice, non la Gertrude redenta), del Fermo e Lucia:
“Ivi [nel convento-prigione] l’infelice infuriò per qualche tempo [...]. Urlava tutto il giorno, bestemmiava più di tutto il cardinale [...].” Ma poi: “La Signora all’annunzio di tali atrocità [il tentativo di omicidio delle due suore da parte di Egidio], tutta, tutto ad un tratto si mutò; rivolse in orrore di se stessa, in pentimento, in dolore ineffabile, in lagrime inesauste tutto quell’impeto di furore; e da quel momento fino al suo ultimo respiro non si stancò mai di espiare almeno ciò che non poteva più riparare. Il Cardinale ch’ella chiamò poi il suo liberatore, dovette porre un freno ai rigori ch’ella esercitava contra se stessa; la visitò da poi e la consolò sovente. Pagò egli poi sempre le spese del suo mantenimento, perché i parenti, come se col rifiutare quella sventurata avessero potuto scuotersi da dosso la colpa che avevano nella sua rovina, non vollero più udirne parlare”.
Ma, tornando al quesito iniziale, chi si nasconde dietro al personaggio della Monaca di Monza? Corrisponde il personaggio della Signora a una monaca realmente esistita? Dove si colloca il confine tra realtà e invenzione fantastica? Riporto qui di seguito risultati di ricerche e indagini iniziate a fine Ottocento e protrattesi fino ai nostri giorni, risultati che senz’altro potrebbero essere incrementati e arricchiti da ulteriori acquisizioni; la prefazione storica presente nel catalogo della mostra sulla Monaca di Monza (e in generale sulla donna come vittima delle ingiustizie della società in ogni tempo e luogo) tenutasi qualche tempo fa a Milano (La Monaca di Monza. La storia, la passione, il processo, Silvana Editoriale) si è rivelata, a questo proposito, illuminante.
Per costruire il personaggio della Monaca di Monza, il Manzoni s’ispira alla figura storica di Marianna de Leyva, nata a Milano nel 1576 dal matrimonio tra Martino de Leyva, esponente di una illustre famiglia spagnola (il nonno di Martino, Antonio, Conte di Monza, era stato insignito del titolo di Principe d’Ascoli da Carlo V per aver contribuito alla vittoria della guerra contro Francesco I di Francia) e Virginia Marino (figlia di Tommaso Marino, duca di Terranova di Calabria), che morirà dieci mesi dopo aver dato alla luce Marianna, lasciando in eredità alla figlia una parte cospicua dei suoi beni. A differenza di quanto il Manzoni afferma in entrambe le redazioni del romanzo, la monacazione di Marianna non viene stabilita fin dalla nascita, e non dipende dalla volontà di mantenere integro il patrimonio consegnandolo esclusivamente al primogenito (il cosiddetto maggiorascato, pratica purtroppo molto diffusa tra le famiglie nobili dell’epoca); è una conseguenza del peggioramento della condizione economica del padre, che ha bisogno di denaro per far fronte alle richieste del fisco successive al suo nuovo matrimonio in Spagna, e che spinge la figlia a prendere il velo per poter agevolmente disporre del suo patrimonio e per non esser costretto a pagare un’ingente dote matrimoniale. Una dote matrimoniale era molto più consistente di una dote spirituale (la somma versata per l’ammissione definitiva al monastero); tuttavia nel caso di Marianna ci furono problemi anche per la dote spirituale (per cui si chiese la proroga del versamento), a causa del mancato pagamento, da parte della famiglia della madre (nel 1584 si verifica il tracollo della fortuna dei Marino), della dote che Virginia Marino aveva lasciato alla figlia. Entrata nel convento di Santa Margherita a Monza con il nome materno di Virginia Maria, nel 1597 la de Leyva conosce Giovanni Paolo Osio (l’Egidio dei Promessi Sposi), la cui abitazione confina con il monastero; con lui intreccia una relazione, di cui mette a conoscenza rendendole sue complici le monache Benedetta e Ottavia. Nel 1604 nasce da questo rapporto proibito Alma Francesca Margherita, che l’Osio riconosce e affida alle cure di una donna al di fuori dell’ambiente monastico; nel 1606 viene uccisa dall’Osio la conversa Caterina della Cassina da Meda, che aveva minacciato di parlare e di rivelare il segreto al Cardinale Federico Borromeo. Scoperto l’omicidio, nel 1607 l’Osio viene arrestato, ma riesce a fuggire e cerca di eliminare le due monache-damigelle di Suor Virginia (solo Suor Benedetta sopravvive); bandito dalla città, si rifugia da un amico che però lo tradisce e lo uccide. Suor Virginia viene condotta in prigione nel convento del Bocchetto a Milano, e nel 1608 viene decretata la pena: prigionia perpetua nel convento delle convertite di Santa Valeria, “rinchiusa dentro il detto carcere e [...] murata per sempre, finché avrà vita [...]. Sia lasciato solo un piccolo foro nella parete del carcere, attraverso il quale possano essere passati [...] gli alimenti [...]; sia lasciato anche un altro piccolo foro o una finestrella, attraverso cui possa avere luce e aria”. Nel 1622 Federico Borromeo le concede la grazia e il muro della cella viene abbattuto; tuttavia Suor Virginia, segnata da 14 anni di reclusione inumana, sarà incapace di riadattarsi alla vita conventuale e condurrà un’esistenza all’insegna della solitudine e dell’espiazione fino al 1650, anno della sua morte. Borromeo assisterà la pentita fino alla fine (ci sono rimaste le lettere di contrizione che dal 1625 Suor Virginia fece recapitare al Borromeo per ottenere il perdono), e inizierà a scrivere la biografia di questa monaca particolare, grande nel peccato come nel pentimento, dal titolo Di una verace penitente.
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Bellissimo Questo racconto dei promessi sposi lo so tutto a memoria
molto interessante il collegamento con la condizione femminile in generale…
Grazie per avermi consegnato una parte dei Promessi Sposi in forma storica.